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lunedì 6 ottobre 2014

IL LOMBRICO (Racconto)

IL LOMBRICO
Di Mario Stilli

Un giorno, in una sporca strada di città, venne a trovarsi sul marciapiede un piccolo lombrico. Un piccolo e vispo vermetto rossastro che si contorse un po’ sul cemento maledettamente duro e non dolcemente accogliente come la sua amata terra umida. Chissà lui, il poverino, era caduto da un vaso di fiori posto sul davanzale di una finestra della casa soprastante; o forse un pescatore di passaggio con la scatola delle sue esche mal chiusa…, fatto è che l’animalino non sapeva cosa fare, dove strisciare per salvarsi da tutti ciò che avrebbe potuto schiacciarlo : ruote scarpe ed altro. All’improvviso, uscito da un piccolo giardino lì vicino,
ecco qualcosa di piumato in volo di ricognizione sulla zona. E’ un uccello, un piccolo uccelletto, ma sempre molto più grosso del lombrico. Quest’ultimo tentò invano di introdursi dentro a una piccola fessura che gli parve di vedere sul marciapiede; ma il suo tentativo fu vano, perché quel buco riusciva a contenere solamente la sua testa. L’uccello gli fu addosso: “Adesso ti mangio”. “No,ti prego”, tentò la sua forse ultima carta, “io qua sono capitato per caso; non riesco nemmeno a capire come possa essere io caduto qui; ricordo solo l’abbraccio morbido della terra…”. Il volatile, pur continuando a pensare alla sua fame,  volle ascoltarlo. E l’altro continuò “Vedi, io sono solo un piccolo ed apparentemente insignificante essere ma, se non lo sai, io ed i miei fratelli veniamo chiamati “gli spazzini della terra“; noi mangiamo tutto: sporcizia, foglie marce, ed innumerevoli altre cose e le trasformiamo in terra fertilissima; i nostri prodotti ultimamente sono molto richiesti. Ti prego, lasciami andare, e me ne tornerò a concimare fiori, piante e boschi, dove anche tu potrai volare di nuovo, se lo vorrai, un giorno. Il volatile, che non aveva mai incontrato uno stupido verme al quale avesse dato il solo tempo di proferire parola, rimase un po’ perplesso e col becco semiaperto. Proprio vicino ai due animali, accostato al marciapiede, c’era un grosso cassone per i rifiuti. Il vermicello colse l’attimo propizio e, approfittando del momento di indecisione del piumato, riuscì a introdursi attraverso un piccolo foro provocato dalla ruggine sul fondo dello stesso. L’uccello giurò a se stesso che non avrebbe mai più parlato coi vermi. Una mezzora più tardi il lombrico, che non aveva ancora esaurito la paura provata e se ne era rimasto tranquillo in mezzo alla spazzatura, avvertì che il contenitore che lo ospitava si stava sollevando. Era arrivato il camion della nettezza urbana e, di lì a poco, si ritrovò riversato in un’altra scatola metallica, molto più grande della precedente, in mezzo a cartacce, bottiglie vuote e ogni sorta di rifiuto. Dopo circa un’ora di sobbalzi e di rumore, la scatola si aprì nuovamente e tutto il suo contenuto fu rovesciato fuori , compreso l’invertebrato che, non appena ebbe la possibilità di avere ancora la vista chiara, (dato il passaggio dal buio dell’automezzo alla luce del giorno), capì che per una volta la sorte gli era stata favorevole, molto favorevole: il paradiso si trovava davanti a lui. Una distesa sterminata di carte, lattine, ruote di macchine frutta marcia ed altre golosità del genere si perdeva a vista d’occhio. Per un attimo ebbe veramente il dubbio di essersi salvato dal becco dell’uccello, e che quello fosse il mondo dell’aldilà dei vermi. Poco dopo avrebbe cominciato la costruzione delle sue gallerie sotterranee in quel posto magnifico. Per un momento pensò ancora a colui che probabilmente gli aveva fatto grazia della vita, quindi si mise al lavoro. L’uccello, che era rimesto alquanto sconcertato dal suo stesso comportamento, se ne era  rimasto un po’ in attesa che il verme  mettesse appena la testa fuori dal foro nel cassone. Quindi, sconsolato, aveva dischiuso le ali e se ne era tornato al suo albero. Più tardi continuò  la sua ricerca di cibo, che poi era la sua occupazione principale. Volteggiando tra i fumi delle auto del quartiere che a quell’ora circolavano in massa, vide un piccolo giardino annesso ad una bassa abitazione, in cui un bambino stava mangiando un panino; molte briciole si vedevano cadere a terra; quindi volò su un ramo di un alberello che gli avrebbe consentito di osservare la situazione senza essere visto. Fu felice quando il piccolo, terminata la sua merenda, rientrò in casa chiudendosi alle spalle la porta che dava sul piccolo cortile. L’uccello si buttò velocemente su quelle briciole bianche e morbide. Non fece in tempo a mangiarne che una perché, all’improvviso, da sotto una panca verde, gli si avventò contro il padrone assoluto di quel giardino: un grosso gattone col pelo rossiccio e corto, con delle unghie protese in fuori che avrebbero potuto carpire prede assai più grandi di lui, povero uccelletto. “Adesso ti mangio”, disse  il felino, spalancando le fauci dagli aguzzi canini. “No, ascoltami” disse il piccolino, che non aveva neanche tentato un accenno di fuga, dato che la velocità degli artigli del suo cacciatore non glielo avrebbe permesso. “Io non volevo invadere il tuo territorio. Vorrei dirti, prima che tu mi divori, che io un tempo vivevo in un bosco e mi nutrivo di ciò che in esso potevo trovare. A volte andavamo, io ed i miei genitori, in un frutteto che si trovava ai margini della selva e beccavamo la frutta del contadino. Certo lui non era contento di trovare le sue mele così bucherellate, ma la nostra fame era tanta ed i pericoli della foresta areno molti per la nostra debole struttura fisica. Il micio, che non aveva mai incontrato un uccello che comunicasse come quello, oltretutto non appartenente alla sua stessa razza di volatili, ripose per il momento le sue armi affilate, e seguitò ad ascoltare il piccino che così proseguì: “Un giorno, un triste giorno, babbo e mamma ritornarono al nido, nel cavo del nostro albero, e mi comunicarono che, dopo aver beccato una pera nel campo del contadino, si erano sentiti molto male e a malapena erano riusciti a tornare a casa. Probabilmente ciò era stato provocato da certe strane sostanze, veleni, che gli uomini spruzzano sulla frutta per combattere gli insetti, che altrimenti vi penetrerebbero e la rovinerebbero totalmente. Dopo pochi minuti babbo e mamma morirono davanti ai miei occhi. Fu quella volta che decisi di trasferirmi qui, in città. Anche se l’ambiente non mi piaceva affatto, decisi di rimanere. Ma mi mancavano tanto i tronchi cavi, dove scovare qualche vermicello; mi mancavano gli spazi, l’aria intrisa dei profumi boschivi. Ma soprattutto mi mancava l’alternarsi delle stagioni. Perché qui, caro animale, non si sa quasi in che stagione ci troviamo, se non per la temperatura. Quando arriva il freddo sento in me qualcosa di strano, come la voglia di allontanarmi da qui, ma non riesco più nemmeno a ricordare i miei istinti”. “Allora vorresti che io mangiassi al posto tuo quell’avanzo di carne inscatolata che vedi laggiù, nella ciotola.” interruppe il gatto, che si era proprio rotto di tutti quei discorsi complicati. L’uccellino lo guardò con gli occhi piccoli e dolci, senza parlare. Poi, dopo un attimo, disse solo: “Lascia che io ritorni nel mio mondo; se mi lascerai vivere tornerò nel mio ambiente, quello vero, dove l’esistenza è più dura, ma certamente più naturale”. Il felino ebbe sul viso una specie di smorfia e si volse subito verso la sua ciotola presso la panchina, principalmente perché era atterrito all’idea che il piccoletto gli dicesse “Grazie, sei buono”, o che ci fosse qualcun altro della sua razza nei paraggi, e lo avesse visto, lui, la belva, il terrore di ratti ed uccelli, lasciarsi intenerire così, semplicemente. Mangiò un pezzetto della suo cibo in scatola e, quando si voltò nuovamente, vide, su in alto oltre i tetti delle case, le due alette che battevano l’aria, leggere. Decise di recarsi un po’ in giro. Oltre il muro che recintava la casa c’era un grande campo ormai abbandonato da anni e là il gattone decise di dirigersi, in cerca di topi. “Almeno quei topacci sporchi non mi inteneriranno; i miei denti aguzzi stavolta carpiranno la preda…”. Saltò disinvoltamente il muretto e si gettò a muso basso in caccia. “Che razza di posto”,pensò, “certo gli uomini sono più animali di me”. Camminava quatto quatto tra piccole montagne di rifiuti, terra, siringhe ed ogni sorta di sporcizia che, giorno dopo giorno, si era accumulata in quella spianata tetra e immonda, cercando di scorgere in qualche angolo un grosso e saporito topo su cui avventarsi. Continuò il suo giro per un po’ quando, dietro la sua coda, udì ringhiare minacciosamente e capì, senza voltarsi, che chiunque fosse ce l’aveva proprio con lui. Si girò lentamente. Un cagnaccio di grossa taglia, palesemente vecchio e malandato gli disse, digrignando i denti, mentre un rivolo di bava biancastra gli colava dall’angolo destro della bocca: “Adesso ti azzanno”. Il felino, che aveva imparato la lezione, non si perse d’animo. Contrariamente a quanto il più grosso dei due si sarebbe aspettato, non si mosse. Pur avendo una paura dannata a causa della dentatura che gli stava davanti,cominciò una specie di miaosa lamentela e disse che in fondo loro due erano quasi cugini, che tra animali domestici bisogna volersi bene, che senz’altro chi lo avesse assaporato lo avrebbe trovato duro, quasi indigesto e che, naturalmente, se il cane lo avesse lasciato andare, lui non avrebbe più invaso quel territorio e che anzi sarebbe ritornato in campagna, nella fattoria dov’era nato due anni prima, in caccia di lucertole, uccellini, serpenti e così via….”Mi sto proprio invecchiando”, disse il vecchio pastore, mentre si allontanava con la coda fra le gambe. Il gatto fuggì come il vento. Il cane uscì da quel posto attraverso un cancelletto di legno che non stava più nei cardini e si mise a girare, mesto ed affamato per le strade rumorose. Sentiva l’impellenza di un certo bisognino ma, neanche a farlo apposta, non trovò neanche un alberello in quella via; si girò dalla parte opposta a quella che stava percorrendo, ma non vide né un’aiuola, né qualcosa che avesse potuto servire al suo scopo. Improvvisamente una grossa macchina accostò al marciapiede. Era un’auto di lusso, nera, e riluceva lucidamente al tardo sole del pomeriggio. “Bah”, pensò il vecchio quadrupede che si trovò proprio vicino ad una delle ruote dalle lustre borchie metalliche. Alzò la zampa alquanto spelata e riversò con soddisfazione il liquido sulla gomma. Si udì aprire lo sportello. Ne uscì un uomo civilizzato, come li aveva soprannominati lui, da quando aveva dovuto lasciare il suo gregge ed il suo caro padrone. Il proprietario dell’auto, una specie di damerino imbellettato, giacca e cravatta, gli sferrò un calcione nel didietro. Ma non finì lì, perché l’uomo, forse in preda ad un eccesso d’ira magari dovuto a problemi suoi estranei a quella situazione presente, continuò a picchiarlo quasi selvaggiamente. “Tutti pazzi, tutti pazzi”, continuava a ripetersi la bestia, mentre le fitte lancinanti del dolore gli percorrevano le membra. Arretrò di qualche metro, ma l’individuo gli fu ancora addosso e questa volta gli sferrava dei calci sulla testa. Il cane avrebbe voluto parlare, come aveva fatto il gatto con lui, ma sapeva bene che non esisteva, tra quelli della sua razza e gli esseri umani, alcuna possibilità di dialogo, a parte l’abbaiare, il guaire od il dimenare la coda. Ma, nonostante la sua grande ed innata bontà di cane da pastore, l’istinto ebbe il sopravvento: con uno sforzo non indifferente si sollevò un po’ sulle zampe, che aveva piegate rannicchiandosi a terra, quindi puntò diritto ad afferrare coi denti il polpaccio destro dell’uomo infuriato. Costui cacciò un urlo bestiale quando percepì qualcosa che gli penetrava la pelle; poi, senza curarsi della sua ferita, aprì nuovamente lo sportello dell’auto, mettendosi poi alla ricerca di qualcosa all’interno. La povera bestia vide qualcosa nelle mani dell’uomo, che perdeva sangue da sotto il pantalone, in un attimo capì che per lui forse era giunta la fine. L’oggetto era un lungo coltello ed il suo avversario voleva piantarglielo addosso. Gli occhi dell’animale risplendevano lucidamente e per un attimo, avvicinando la lama, l’uomo vide uno strano bagliore argenteo in quelle pupille. Voleva abbaiare, fuggire, ma non aveva più forze. Pensò che se un miracolo lo avesse salvato da quella situazione, se ne sarebbe ritornato alla montagna che aveva abbandonato e avrebbe ricercato il suo gregge, il suo padrone, il fiume dalle acque chiare e tutto il suo mondo; e se non fosse stato capace, data la sua età, di eseguire ancora il suo lavoro di pastore, avrebbe voluto rimanere ugualmente, per far compagnia al suo amico, ancora per i loro boschi e nella loro vallata…. La lama era sempre più vicina: capì che stava per morire. All’improvviso e inaspettatamente il cielo si oscurò; una specie di coltre bluastra o forse grigia, ma fatta di mille puntini, ricoprì l’area sovrastante quella triste scena. L’uomo fermò la sua arma. Entrambi voltarono la testa in tutte le direzioni, con la ferma convinzione che qualcosa stesse per accadere in quell’atmosfera irreale. Sui due contendenti c’era adesso qualcosa di permeatamene pesante, di opprimente; un qualcosa, come una cupola spessa e circoscritta dal resto della realtà. All’improvviso la videro. Era alta, altissima. L’imponenza della figura schiacciava l’uomo nella sua piccolezza emotiva. Era la Morte Nera, ed il volto era atroce. Non tanto per la bestia, che lo interpretò semplicemente come un volto animalesco, quanto per l’uomo, che lo percepì come qualcosa che rispecchiasse la parte immonda della sua anima, quella più traviata, quella che egli, come mille altri, aveva lasciato che il mondo insozzasse. Essa, la Morte, nella sua ripugnanza, mostrava però qualcosa di logico, una risultante di una serie di torti subiti e stampati sul viso, o su quello che le era rimasto a causa della consunzione della rabbia, delle lacrime, della tristezza. Il coltello cadde dalle mani dell’uomo. La Morte dischiuse il suo mantello nero e pesante che l’avvolgeva per tutta la sua imponenza. Il suo sguardo fissò quello dell’animale il quale, ormai agonizzante per le percosse ricevute, era riuscito a malapena ad alzare gli occhi verso quell’essere maestoso. Quasi senza toccare terra il povero vecchio percepì che le sue zampe lo trasportavano dentro al mantello della Morte, all’interno del quale, in un istante, scomparve penetrando nell’oscurità. “Riposa adesso, vecchio; le tue sofferenze sono finite” pronunciò l’Altissima. L’uomo voleva fuggire, ma non riusciva a mettere in movimento i suoi arti. La Morte lo fissò intensamente, con odio profondo. Egli capì che era finita, che tutto sarebbe probabilmente finito entro pochi istanti. “Perché hai ucciso questa povera bestia?”. Non seppe rispondere; le labbra gli tremavano, mentre la gola gli si muoveva spasmodicamente ed egli deglutiva convulsamente. Poi, lentamente, riuscì a proferire qualche parola, le sue ultime e scarne parole: “Risparmiami; se mi lascerai andare tornerò al mio ambiente naturale, dove l’essere umano e la bestia possono convivere pacificamente; dove c’è posto per tutte le creature che vogliono esistere, esprimendosi nell’armonia della vita…”. Aveva una paura tremenda; il timore di quell’essere mostruoso lo divorava internamente. Il volto contorto della Morte si dischiuse nuovamente, per esprimersi definitivamente: “Ma il tuo ambiente è questo, uomo; tu stesso hai voluto crearlo,farlo crescere e confermarlo come tuo, lontano dalla natura. Questo ambiente cittadino, asettico e sintetico, che ti ha portato ad uccidere un povero cane che non meritava la tua violenza assurda, è proprio il tuo: tuo e della maggioranza degli uomini, che abitano le convulse e nevrotiche metropoli “. L’uomo capì che era proprio finita. La Morte lo fissò ancora per un attimo, con disprezzo. Poi, senza pietà, lo fulminò in un lampo saettante, lui e la sua bella automobile. Il cielo si rischiarò, lentamente. La Morte scomparve, dissolvendosi. Uno spazzino, il mattino dopo, raccolse sul posto un po’ di cenere bianco giallastra, ignorando che cosa fosse stato bruciato su quel marciapiede. Poche ore più tardi, alla discarica dell’immondizia, un piccolo lombrico sbuffò un poco, perché un po’ di quel mucchietto di cenere gli cadde proprio sulla testa mentre lui, come sempre, se ne stava tranquillo nel suo paradiso.

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